microbiota

Microbiota Intestinale: Eubiosi e Disbiosi

Il corpo umano è popolato da miriadi di microrganismi in tutta la sua superficie e nelle cavità collegate all’esterno. I colonizzatori microbici dell’intestino (microbiota intestinale) sono una parte funzionale e non sacrificabile dell’organismo umano: producono vitamine e altre sostanze fondamentali al nostro organismo e partecipano a molteplici processi fisiologici (sviluppo somatico, nutrizione, immunità , eccetera.).

Molti studi hanno correlato alcune malattie croniche non trasmissibili delle società sviluppate (atopie, sindrome metabolica, malattie infiammatorie, cancro e alcuni disturbi del comportamento) con la disbiosi, ovvero la perdita di ricchezza di specie nel microbiota intestinale e deviazione dall’ambiente microbico ancestrale.

Cambiamenti nell’ambiente, Stili di vita non salutari , l’uso di antisettici e antibiotici, e le abitudini alimentari nella società industrializzata sembrano essere all’origine della disbiosi.

La colonizzazione microbica e lo sviluppo di un corretto microbiota intestinale iniziano al momento del parto. I bambini nati da parto vaginale hanno un microbiota iniziale che ricorda quello della vagina materna, mentre quelli nati da taglio cesareo mostrano i propri profili della pelle o dell’ambiente.

Negli adulti un microbiota intestinale in eubiosi, in equilibrio, è formato in proporzione decrescente dalle seguenti popolazioni di batteri: Firmicuti, Bacteroiditi e Actinobatteri.

Questa proporzione viene garantita da:

  • dieta ricca in fibre
  • apporto moderato in grassi e proteine
  • stile di vita adeguato
  • uso di probiotici

L’eubiosi si correla con un’ottimale modulazione del sistema immunitario, modulazione dell’asse intestino cervello, un incremento del metabolismo lipidico, un aumento della sensibilità insulinica, la sintesi di vitamine, l’integrità della barriera intestinale, un’attivazione dell’ angio-genesi intestinale, produzione di anti ossidanti con diminuzione di citochine pro infiammatorie e un incremento della produzione di acidi grassi a catena corta. Quest’ultimi svolgono un’importante funzione benefica non solo a livello locale ma anche periferico.

Un microbiota intestinale in disbiosi comporta una progressiva riduzione della diversità batterica  originaria, ed è correlata da:

  • dieta ricca di zuccheri e a. grassi saturi
  • consumo eccessivo di proteine
  • uso eccessivo di antibiotici e inibitori della pompa protonica.

La prima conseguenza della disbiosi  è l’aumento della permeabilità intestinale. Ci si trova in condizioni in cui l’ intestino è definito “colabrodo”, ovvero il tratto digestivo è danneggiato, formato da buchi a livello della barriera intestinale. Pertanto, le particelle che normalmente non possono passare attraverso la barriera intestinale, in questa condizione, sono in grado di farlo.

Questo aumento di permeabilità si correla con una serie di patologie, tra cui malattie croniche intestinali, sindrome dell’intestino irritabile.

La disbiosi comporta anche una diminuzione della modulazione dell’asse intestino-cervello, diminuzione della produzione di acidi grassi a catena corta, aumento della resistenza insulinica, rallentamento del metabolismo lipidico, aumento della citochine pro infiammatorie ( infiammazione locale), diminuzione degli agenti anti ossidanti, aumento della produzione di 3- metil ammina. Quest’ultimo composto una volta che arriva al fegato, viene ossidato ed è legato ad una serie di patologie come lo stesso diabete, aterosclerosi, malattie renali.

Il mantenimento dell’integrità della barriera intestinale è data dall’ eubiosi della flora batterica, una disbiosi con il tempo non fa altro che demolire le giunzioni intercellulari e consentire il passaggio nel flusso sanguigno e a livello del sistema immunitario di sostanze nocive, andando a determinare infiammazione sia locale che sistemica.

Sono numerose le malattie/sindromi correlate ad una disbiosi intestinale, le più studiate sono:

  • Malattie gastrointestinali, quali sindrome dell’intestino irritabile o le malattie infiammatorie croniche intestinali
  • Malattie croniche, in quanto l’intestino agisce come secondo cervello
  • Malattie autoimmuni
  • malattie legato al Metabolismo: obesità, sindrome metabolica, diabete mellito di tipo II

Esistono test che permettono di capire il grado di permeabilità intestinale , per esempio:

  • Rapporto lattulosio/mannitolo. Due zuccheri non digeribili e non metabolizzabili dal nostro organismo. Hanno grandezza diversa, per cui vengono utilizzati per studiare la permeabilità proprio sul fatto che il mannitolo, essendo piccolo, può attraversare la parete intestinale in Misura del 14%, il lattulosio invece, essendo più grosso, può passare soltanto all’1%. Non essendo metabolizzati si ritroveranno nelle urine. Se dosando gli zuccheri nelle urine ritrovo lattulosio, allora si ha un aumento della permeabilità intestinale. La membrana è integra quando il rapporto lattulosio e mannitolo è inferiore a 0,03.
  • Dosaggio zonulina, ormone regolatore dell’integrità intestinale. Valori aumentati di zonulina rispetto al riferimento indicano permeabilità più o meno evidente.
allergia o intolleranza?

Allergia o Intolleranza alimentare?

Le allergie e le intolleranze alimentari fanno parte di un più vasto gruppo di disturbi definiti come reazioni avverse al cibo. Quest’ultime sono condizioni che determinano una sofferenza dell’organismo o di suoi distretti a seguito dell’ingestione di un determinato cibo. Vengono classificate in:

  • Immuno mediate (allergie alimentari): sono reazioni del sistema immunitario, di solito immediate e localizzate, dirette contro sostanze normalmente innocue come il cibo o i componenti alimentari. Queste reazioni innescano la produzione di immunoglobuline, soprattutto di classe IgE, determinando il rilascio di mediatori chimici che provocano una serie di reazioni quali orticaria, dermatite atopica, nausea, prurito, gonfiore alle labbra, rinite, difficoltà respiratorie, fino a reazioni sistemiche gravi che conducono allo shock anafilattico.

Alcune allergie, possono non essere IgE mediate, come la celiachia, enterocolite da proteine alimentari oppure avere una componente mista (IgE mediate e non) come l’allergia alle proteine del latte vaccino, esofagite e gastroenterite eosinofila.

  • Non immuno mediate (intolleranze alimentari): Esistono diverse tipologie di intolleranze alimentari:
    • Deficienza enzimatica: l’organismo è incapacite, per difetti congeniti, di metabolizzare alcune sostanze presenti nell’organismo. La più nota è l’intolleranza al lattosio, dovuta al deficit di lattasi. Altri esempi di intolleranza dovuta alla carenza di un enzima sono il favismo e la maldigestione dei FODMAPs.
    • Intolleranze farmacologiche: legate alla presenza di sostanze farmacologicamente attive che scatenano reattività come istamina, tiramina, caffeina, alcool e teobromina;
    • Intolleranze da additivi aggiunti agli alimenti: provocate da sostanze utilizzate per migliorare la qualità del cibo, la sua appetibilità o per migliorarne la conservazione. I più comuni additivi sono: coloranti, conservanti, antiossidanti, esaltatori di sapidità, dolcificanti ed addensanti; esempio solfati, nitriti, salicilati.
    • Reazioni intestinali e non intestinali non specifiche: quali sindrome dell’intestino irritabile, distensione luminale, riflesso gastrocolico.
  • Reazioni tossiche (intossicazioni alimentari): sono dose dipendenti di una determinata sostanza nociva ingerita e possono essere dovute a sostanze chimiche aggiunte ai cibi (additivi, insetticidi, fertilizzanti, antibiotici, metalli), a sostanze naturali presenti negli alimenti (micotossine, veleni naturali contenuti in piante, animali, funghi ecc.), a processi industriali o di non idonea lavorazione del cibo, come nel caso di botulino o di stafilococco aureo.

Nell’allergia la sintomatologia, tra il bambino e l’adulto, è più o meno sovrapponibile ad eccezione della dermatite atopica al viso, che si manifesta prevalentemente nel bambino.

I sintomi più comuni dell’allergia sono:

  • gonfiore viso/bocca/occhi
  • rush cutaneo e/o orticaria
  • prurito
  • calo pressorio
  • aritmia
  • dolori al petto.

Nelle intolleranze i sintomi sono essenzialmente:

  • formazione gas intestinale
  • gonfiore e crampi addominali
  • problemi digestivi
  • bruciore di stomaco
  • mal di testa e irritabilità.

I sintomi condivisi tra intolleranza e allergia sono nausea, vomito e diarrea.

I Sintomi caratteristici di questa fase della vita, possono essere:

  • a BREVE termine: sintomi vasomotori e neurodegenerativi. Per esempio vampate di calore, insonnia, ansia e depressione.
  • a MEDIO termine: riguardano l’apparato genito-urinario, come secchezza vaginale, atrofia dell’apparato, incontinenza urinaria.
  • a LUNGO termine: conseguentemente alla riduzione degli estrogeni, si ha un aumento del grasso addominale. La donna sarà più soggetta all’obesità, sindrome metabolica, malattie cardiovascolari e osteoporosi.

L’intolleranza alimentare coinvolge il sistema digestivo, in quanto l’alimento può causare un’irritazione di un tratto o più tratti del digerente oppure non può essere opportunamente digerito.

La quantità di alimento che può scatenare l’intolleranza varia da soggetto a soggetto, ed è proprio la quantità dell’alimento a determinare l’entità della sintomatologia.

I sintomi si presentano gradualmente e aumentano via via, ma possono essere adottate misure per poter impedire la progressione della sintomatologia.

Viceversa l’allergia coinvolge il sistema immunitario, i sintomi si verificano quando l’alimento o i suoi componenti vengono riconosciuto dall’organismo come allergeni e si scatena la reazione allergica. L’allergia, dunque, non è dose dipendente, come l’intolleranza.

I sintomi dell’allergia sono immediati e l’unico modo per impedire l’allergia è eliminare l’alimento dalla dieta.

Per capire se si tratta di allergia esistono test cutanei di primo livello ambulatoriali:

  • Prick test: Il test si esegue pungendo leggermente la cute con un’apposita lancetta  e applicando una goccia di allergene purificato sulla cute dell’avambraccio. Se il test è positivo, nel giro di alcuni minuti compare un piccolo rigonfiamento, nel punto in cui è stato applicato l’allergene.
  • Prick by Prick: non viene usato allergene purificato ma direttamente l’alimento.
  • Patch test: vengono adesi sulla schiena del paziente dei dischetti contenti vari allergeni. Vengono lasciati agire per per 48 ore e, se la persona è suscettibile ad una particolare sostanza, compare una reazione infiammatoria locale.

Ma esistono anche indagini di laboratorio (II livello) come:

  • Prist test, ovvero il dosaggio delle IgE totali
  • Rast: dosaggio delle IgE specifiche contro l’allergene specifico alimentare o inalante

Per capire se si tratta di intolleranze alimentari, gli unici test scientifici e validati sono i Breath test H4 o CH4, utilizzati per lo studio di intolleranze, malassorbimento e maldigestione.

Con i quali si va ad indagare:

LATTOSIO: Ipolactasia e Intolleranza

GLUCOSIO: Malassorbimento e SIBO (Sovracrescita Batterica del Tenue)

LATTULOSIO: OCT (Tempo di transito oro-cecale)

FRUTTOSIO: Malassorbimento

SACCAROSIO: Malassorbimento (Saccarosio/Isomaltato)

FODMAP: Maldigestione

Come funziona questo tipo di test? Viene somministrato lo zucchero test al paziente, che arriva a livello intestinale, dove si ha una fermentazione batterica con produzione di idrogeno o anche metano/anidride carbonica che passa in circolo fino ad arrivare a livello polmonare. È possibile dosare questi gas nell’espirato del paziente.

Regole per gestire le intolleranze alimentari:

1) Le intolleranze alimentari non sono responsabili di sovrappeso e obesità

2) Non effettuare autodiagnosi

3) Diffidare da chiunque proponga test di diagnosi di intolleranza alimentare per i quali manca evidenza scientifica di attendibilità. I test non validati sono: dosaggio IgG4, test citotossico, Alcat test, test elettrici (vega-test, elettroagopuntura di Voll, bioscreening, biostrengt test, sarm test, moratest), test kinesiologico, dria test, analisi del capello, iridologia, biorisonanza, pulse test, riflesso cardiaco auricolare.

donna menopausa

Premenopausa e Menopausa: Consigli Alimentari Per Alleviare i Sintomi

La menopausa è un momento importante per la donna. Il compito degli specialisti della nutrizione è quello di accompagnare la donna in questa fase particolare della vita, caratterizzata da modifiche ormonali che si ripercuotono sia a livello psicologico che fisico.

Sia nella fase di prevenzione che nella fase a medio e lungo termine, il ruolo del nutrizionista è di fondamentale importanza.

La menopausa è definita come la cessazione definitiva delle mestruazioni, che consegue all’esaurimento della funzione steroide secernente dell’ovaio.

Questa fase è anticipata da uno stadio chiamato premenopausa, che è variabile da donna a donna. Qui si iniziano a manifestare irregolarità mestruali e disturbi funzionali che fanno parte della cosiddetta sindrome climaterica.

Il climaterio è il periodo di transizione tra la vita riproduttiva e non riproduttiva della donna, si conclude dopo un anno dall’ultima mestruazione.

I Sintomi caratteristici di questa fase della vita, possono essere:

  • a BREVE termine: sintomi vasomotori e neurodegenerativi. Per esempio vampate di calore, insonnia, ansia e depressione.
  • a MEDIO termine: riguardano l’apparato genito-urinario, come secchezza vaginale, atrofia dell’apparato, incontinenza urinaria.
  • a LUNGO termine: conseguentemente alla riduzione degli estrogeni, si ha un aumento del grasso addominale. La donna sarà più soggetta all’obesità, sindrome metabolica, malattie cardiovascolari e osteoporosi.

Per quanto riguarda insonnia, ansia e depressione possiamo agire a livello nutrizionale evitando alimenti e avendo cura alla tipologia di pasti.

EVITARE:

  • Pasti abbondanti e ricchi di grassi ostacolano i processi digestivi
  • Sostanze nervine attivanti, come caffeina e alcool.
  • Cioccolato fondente dopo cena. Solitamente viene concessa, ma in questi casi è meglio evitare perché la cioccolata (cacao) ha un’azione stimolante.

CONSIGLIATI:

  • Passiflora per ridurre i livelli di stress, con azione antispasmodica e sedativa.
  • Magnesio ha un effetto rilassante a livello del sistema nervoso centrale

Per alleviare i sintomi a medio termine, il nutrizionista può intervenire con l’alimentazione riguardo sintomi come la secchezza vaginale. Si è visto che un intestino sano agisce positivamente sulla riduzione di questa sintomatologia.

Il microbiota riveste un’importanza fondamentale, quindi la sua integrità è di primaria importanza.

Anche Per i sintomi a lungo termini è possibile intervenire con l’alimentazione.

L’osteoporosi aumenta con l’avanzare dell’età ma anche quando si istaura la menopausa, conseguentemente alla riduzione degli estrogeni. Quest’ultimi hanno un ruolo fondamentale nella salute dell’osso:

  • Stimolano la sintesi del collagene e la proliferazione osteoblastica, deputati alla produzione della matrice ossea.
  • Inibiscono gli osteoclasti, imputati nella degradazione della matrice ossea
  • Modulano il metabolismo fosfocalcico dell’osso, favorendo l’assorbimento intestinale del calcio, e riducendone la secrezione renale con aumento dell’incorporazione a livello del tessuto osseo.

Per il picco di massa ossea ci sono fattori che possono essere modificati, come una dieta ricca di Calcio, vitamina D, proteine, vitamina A,E,K, minerali e sodio. Anche lo stile di vita fa la differenza, una donna attiva ha sicuramente una salute dell’osso completamente diversa da una donna sedentaria, una donna fumatrice o con consumo di alcool eccessivo. Bisogna agire già dall’adolescenza per preservare il più possibile la massa ossea.

Il Calcio è il protagonista della prevenzione all’osteoporosi, se c’è un introito inadeguato con la dieta nel corso della vita, è più difficile raggiungere il picco di massa ossea ottimale.

I livelli di assunzione di Calcio nella donna con l’avanzare dell’età tendono ad aumentare, raggiungendo i 1200 mg al giorno dai 60 anni in su.

Quali sono alcuni  alimenti contenenti Calcio? Il calcio non si trova solo nei formaggi e latticini, ma anche in alcuni tipi di frutta secca (mandorle), alcuni tipi di pesce (alici, polpo, calamari, sgombri, gamberi), ma anche verdure come broccoletti, spinaci, cicoria, radicchio, cavoli, invidia, cardi.

Non ci dimentichiamo dell’acqua, che è la prima fonte di calcio fissa che può arrivare a coprire fino 1/3 della dose giornaliera raccomandata. Una buona idratazione può aiutare a raggiungere il quantitativo di calcio che ci serve per mantenere la salute dell’osso.

Con l’avanzare dell’età si ha un minor assorbimento del Calcio, dovuto sostanzialmente ad un minor sintesi endogena di Vitamina D, come conseguenza anche  alla minor esposizione alla luce solare.

La vitamina D è importante per la regolazione dell’assorbimento del Calcio intestinale, e condiziona quindi la mineralizzazione delle ossa  e contribuisce alla loro solidità.

Con l’alimentazione riusciamo ad assorbire il 15% della dose di Vitamina D richiesta, alcuni alimenti che la contengono sono: salmone, uova, funghi e tonno.

Importante diviene l’esposizione alla luce solare, i primi minuti sarebbe consigliato esporsi senza la crema protettiva in modo che i recettori, principalmente esposti su avambraccio e cosce, riescano ad assorbire il più possibile.

Per quanto riguarda il dosaggio, il range ottimale di Vitamina D è compreso tra 30 e 80 mg/dl.

Essendo una vitamina liposolubile, quando viene integrata è necessario che venga assunta a stomaco pieno, in modo da essere maggiormente assorbita con i lipidi derivati dalla dieta.

Una volta entrata nel circolo linfatico verrà trasportata e sequestrata dal tessuto adiposo. Questo vuol dire che una persona con un’alta percentuale di grasso è maggiormente esposta ad una riduzione dei livelli di vit. D circolante. Quindi un calo ponderale di peso, può essere d’aiuto per aumentare i livelli di quest’ultima.

La riduzione dei livelli di estrogeni è correlata anche all’aumento dell’incidenza di sindrome metabolica, che è caratterizzata da insulino resistenza, obesità addominale, dislipidemia, aumento della pressione arteriosa e stato protrombotico e infiammatorio.

Come viene “diagnosticata” la sindrome metabolica? Devono essere presenti almeno tre di questi fattori di rischio:

  • Pressione arteriosa > 130/85 mmHg
  • Trigliceridi ematici > 150 mg/dl
  • Glicemia a digiuno > 110 mg/dl
  • HDL < 40 mg/dl (uomo) e <50 mg/dl (donna)
  • Circonferenza addominale > 102 cm (uomo) e > 88 cm (donne)

In menopausa, nella maggior parte dei casi, l’attività fisica viene ridotta e quindi si riduce notevolmente la massa magra.

Il consumo di ossigeno che è un indice di funzionalità muscolare, nelle donne in menopausa con vita sedentaria tende a ridursi. Questo indice si correla in modo inverso all’adiposità addominale.

Da tener conto che Il grasso addominale porta ad aumento della resistenza insulinica, inducendo iperinsulinemia (che porta ad un’ adipogenesi) e una riduzione di adiponectina (sostanza con proprietà anti infiammatorie).

L’attività fisica e il controllo del peso sono i punti cardini della terapia per la sindrome metabolica, in quanto influenzano sia l’adiposità viscerale che l’insulino resistenza.

In particolare l’attività fisica di tipo aerobico, induce una riduzione della massa grassa viscerale rispetto a quella sottocutanea. Quindi l’attività fisica aiuta a mobilizzare il grasso e di conseguenza con un’alimentazione adatta facilita a far perder peso.

Il grasso viscerale è strettamente correlato all’insulino resistenza, ovvero una diminuita sensibilità delle cellule all’insulina. Le cellule non rispondendo più all’insulina, non riescono ad assorbire Glucosio e si istaura un processo di compensazione che porta ad una maggior produzione di insulina. In uno stadio avanzato le cellule pancretiche non riescono più ad adeguarsi alla sintesi e di conseguenza si ha un aumento della glicemia post prandiale.

Le cellule pancreatiche tenderanno con il tempo ad esaurirsi, delineandosi un’alterata glicemia anche a digiuno. Ecco perché l’insulino resistenza può essere l’anticamera del diabete.

Cosa determina l’insulino resistenza?

  • Aumento idrolisi dei trigliceridi al livello del tessuto adiposo che porta ad aumento di acidi grassi nel plasma
  • Riduzione dell’ assorbimento di glucosio a livello del tessuto muscolare, con conseguente riduzione di deposito di glicogeno.
  • Maggior sintesi epatica di glucosio, in risposta all’aumentato rilascio di acidi grassi nel plasma, aumento della glicemia a digiuno.
  • Atrofia delle cellule pancreatiche, questo potrebbe determinare diabete mellito di tipo II.

Come possiamo gestire l’insulino resistenza?

  • Composizione del pasto: Associare alla fonte di carboidrati, sempre una fonte proteica (limitare latticini e formaggio per il loro effetto iperinsulinemico) e fibre
  • Prediligere alimenti freschi e non processati
  • Limitare gli zuccheri semplici e grassi saturi
  • Utilizzare cotture semplici
  • Evitare elevati introiti calorici concentrati in un unico pasto

Quali Carboidrati prediligere?

  • Cereali integrali in chicco a scapito di pasta e farinacei.

Attenzione a chi soffre di patologie gastrointestinali, in cui c’è da considerare anche l’apporto di fibre.

 

Quali Grassi prediligere?

  • Olio extravergine d’oliva
  • frutta secca oleosa
  • semi oleosi

 

Quali proteine assumere?

  • Proteine vegetali (legumi), ma anche animali (pesce, uova e carne).
  • Limitare l’uso di latticini e derivati.
  • Alternare le tipologie di pesce e limitare quelli di grossa taglia, in quanto tendono ad accumulare metalli.

Numerosi studi rivelano l’importanza dei Fitoestrogeni, in questa fase della vita, perché sembrano contrastare i disturbi vasomotori.

Cosa sono i fitoestrogeni? Sono sostanze contenute in alcuni alimenti vegetali che mimano gli estrogeni, carenti in questa fase.

I Fitoestrogeni presenti negli alimenti devono essere attivati dal microbiota intestinale per essere utilizzati, quindi è importante che la microflora intestinale sia integra e in salute.

In quali alimenti sono contenuti? Nei semi di sesamo e di lino, frutti rossi, frumento, olio d’oliva, germogli di fagioli, cavoli di bruxelles, semi di girasole, trifoglio rosso, soia e derivati, lenticchie, fagioli, fave, ceci e nei cereali integrali.

Una categoria di fitoestrogeni, gli ISOFLAVONI, sono quelli più attivi e sono presenti nella soia e derivati, ma anche nei legumi e cereali derivati. La loro azione è sia antiossidante contro le specie radicaliche che estrogenica.

zucchero

Zucchero Bianco Vs Zucchero Bruno: Curiosità e credenze popolari

Le comunità scientifiche che si occupano di nutrizione e non solo, sono concordi sul fatto che lo zucchero (saccarosio) dovrebbe essere limitato o addirittura eliminato dalla nostra alimentazione per i suoi effetti nocivi sulla salute.

Cos’è lo zucchero? Il nome scientifico dello zucchero è saccarosio ed è un disaccaride, ovvero composto da due zuccheri, glucosio e fruttosio che si uniscono tra loro nella linfa delle piante come fonte di energia.

Essendo il glucosio presente in tutte le piante verdi, come prodotto della fotosintesi clorofilliana, molte sono le piante che contengono saccarosio. E’ però la percentuale di saccarosio presente, a far sì che le uniche piante da cui si possano estrarre quantità notevoli di zucchero siano la barbabietola e la canna da zucchero.

A temperatura ambiente, il saccarosio si presenta come un cristallo di colorazione bianca. Lo zucchero puro, sia esso di barbabietola o di canna, avrà quindi questa tonalità.

Lo zucchero definito bruno è lo zucchero che contiene una parte residua di melassa. Si tratta di un liquido marroncino che si separa dallo zucchero mediante centrifugazione.

Sono presenti due diverse tipologie di zucchero bruno:

  1. zucchero bruno naturale: zucchero di canna solo parzialmente raffinato che contiene, quindi, una percentuale residua di melassa originale.
  2. zucchero bruno commerciale: zucchero bianco raffinato addizionato in un secondo momento di melassa, in questo caso il saccarosio può provenire sia dalla barbabietola che dalla canna.
  • Zucchero bianco (da barbabietole)

Le barbabietole una volta raccolte, vengono lavate e tagliate e tagliate a fette, dette “fettucce”.

Successivamente subiscono il processo di diffusione, ovvero vengono inserite all’interno di apparati in cui circola aria calda in senso inverso rispetto all’entrata delle fettucce.

In questo modo l’acqua si arricchisce così, poco alla volta, dello zucchero delle fettucce, prendendo il nome di “sugo greggio”.

Il sugo greggio ottenuto, deve essere depurato e filtrato, in quanto, oltre al saccarosio, contiene anche fibre e sali minerali originariamente presenti nella barbabietola, che lo rendono torbido e di colore scuro.

Con il processo di depurazione si ottiene la precipitazione di molti dei componenti diversi dal saccarosio presenti, fino a ottenere il cosiddetto “sugo leggero”, limpido e di colore giallo paglierino (saccarosio e acqua).

Il sugo leggero viene sottoposto al processo di evaporazione, in modo da eliminare l’acqua presente. Questo procedimento porta alla concentrazione del saccarosio, in modo da ottenere uno sciroppo, detto “sugo denso”.

Successivamente subisce il processo di cristalizzazione , in modo da ottenere cristalli di saccarosio e sciroppo (melassa) aderenti ad esso, e poi centrifugazione, in modo da separare i due componenti.

Il risultato finale di questo ultimo step è lo zucchero bianco. Lo zucchero così ottenuto è sottoposto ad un processo di essiccazione per abbassarne il tenore di umidità e poi raffreddato perché sia idoneo alla conservazione. Lo zucchero, pronto per essere consumato, viene stoccato in un grosso silo in attesa di essere confezionato.

  • Zucchero di canna

Lo zucchero di canna deriva dal fusto della canna da zucchero.

Una volta raccolto e pulito viene schiacciato e macinato per estrarre il succo presente. Il succo contiene anche impurità che dovranno essere separate dal succo. Durante il processo di depurazione, il succo viene riscaldato, depurato e filtrato più volte per rimuovere i non zuccheri e le impurità presenti, analogamente a quanto avviene per la barbabietola da zucchero. Il risultato è un “sugo leggero”, limpido e di colore giallo paglierino.

Successivamente il sugo leggero subisce il processo di evaporazione, in modo da eliminare l’acqua presente e per fa sì che aumenti la concentrazione del saccarosio, ottenendo così uno sciroppo, detto “sugo denso”.

Quest’ultimo viene poi inviato alla successiva fase di cristallizzazione; il risultato di tale fase sono le cosiddette “massecotte”, costituite da cristalli di saccarosio e sciroppo aderente a questi (melassa).

I cristalli vengono quindi separati tramite centrifugazione dalla melassa, ed essiccati.

Nel caso della produzione dello zucchero integrale, il processo di lavorazione della canna da zucchero si differenzia da quello per la produzione dello zucchero di canna grezzo, soprattutto nella produzione di massacotta di minor purezza e con cristalli di piccola dimensione che vengono sottoposti alla fase di centrifugazione con velocità ridotta, con una diversa quantità di acqua aggiunta e con una differente temperatura.

Lo zucchero di canna grezzo si presenta leggermente scuro perché una parte di melasso rimane aderente ai cristalli, conferendo la tipica colorazione marrone chiaro.

Quindi qual è la differenza tra i due tipi di zucchero?

Lo zucchero di canna è chimicamente identico a quello estratto dalla barbabietola. Si tratta, infatti, della stessa molecola estratta. Ciò che è differente nelle due estrazioni sono le impurezze presenti nel prodotto grezzo.

Essendo chimicamente uguali, anche il contenuto calorico sarà praticamente identico. La lievissima differenza è data dalla presenza delle impurità.

Lo zucchero di canna ha le stesse calorie dello zucchero bianco, così come lo zucchero bruno.

Pur non essendo più dietetico, è comunque vero che lo zucchero di canna bruno è più ricco in micronutrienti minerali come calcio, magnesio, potassio e ferro.

L’unico problema è che per arrivare alla dose giornaliera di assunzione consigliata dei micronutrienti dovremmo consumare circa 3,5 kg di zucchero in un giorno soltanto.

Perciò per per le quantità che utilizziamo, il contenuto di minerali è trascurabile.

Nickel

Allergia al Nickel

Il nickel è un metallo pesante presente nel suolo, nell’acqua e nell’aria. Questo è il motivo per cui tutto si può contaminare di questo metallo, anche gli alimenti.

Cos’è l’allergia? È una reazione spropositata del sistema immunitario verso sostanze che normalmente sono innocue per la maggior parte delle persone.

Può essere immediata quando la reazione avviene subito dopo l’esposizione con l’agente allergenico, oppure ritardata quando si manifesta dopo ore o giorni.

Nel caso dell’allergia al Nickel, si tratta di allergia ritardata, e può manifestarsi in tre modi differenti:

1) Allergia da contatto: la lesione cutanea si presenta esclusivamente nelle sedi a contatto con oggetti contenenti Nickel.

2) Allergia sistemica da contatto: le lesioni cutanee si presentano in diversi sedi del corpo differenti dalla sede di contatto.

3) Sensibilizzazione sistemica al nickel: questa manifestazione non coinvolge solamente la parte cutanea ma anche quella gastrointestinale.

Non tutti i pazienti allergici al Nickel presentano tutte e tre le manifestazioni.

 

La diagnosi DEVE essere effettuata esclusivamente dal medico specializzato, attraverso il patch test. Cerotti contenenti particolari cellette, all’interno delle quali vengono inserite 30 sostanze in cui è presente non solo nichel, ma anche cromo, cobalto e altri metalli.

Per quanto riguarda la sensibilizzazione sistemica possiamo intervenire anche attraverso l’alimentazione.

L’anamnesi per questo tipo di manifestazione non è sempre chiara, i sintomi sistemici principali sono: meteorismo, gonfiore, dolori addominali ricorrenti, dermatite , cefalea, reflusso, diarrea, orticaria, angioedema, stipsi.

La terapia consiste oltre alla somministrazione di antistaminici, prodotti topici cutanei, anche di probiotici per curare la permeabilità dell’intestino ed è anche necessaria una dieta a basso contenuto di Nickel.

I sintomi sistemici scompaiono o si ha un miglioramento dell’80%, dopo una dieta a basso contenuto di Nickel.

Quali sono gli alimenti privi di Nickel?

  • Verdure: radicchio, invidia, valeriana, finocchio, zucchine, peperoni, cetrioli
  • Frutta: anguria, melone, agrumi, pesche, banane
  • Latte e latticini se non si è intolleranti al lattosio
  • Farina 00 se non si è celiaci
  • Carne
  • Pesce tranne molluschi, platessa, crostacei, salmone, tonno.
  • Lievito di birra ma non quello in polvere. Per i dolci si può usare il bicarbonato come agente lievitante.

Ma allora non si può mangiare più nulla? Assolutamente NO, la dieta priva di Alimenti contenenti Nickel va fatta solo per 4 settimane.

Dopo di che andranno reintrodotti gradualmente gli alimenti , prima quelli a basso contenuto di Nickel e poi successivamente quelli ad alto contenuto.

  • Alimenti a basso contenuto di Ni (<0,1 microgr/g): funghi, broccoli, uva, gamberoni
  • Alimenti a medio contenuto di Ni (0,1-1 microgr/g): albicocche, avogado, fichi, pere, grano saraceno, pomodoro, spinaci, aragosto, lievito in polvere, farina integrale, piselli, cavolfiore, platessa, asparagi, cipolle, mais, avena, ananas, mitili, ostriche, prugne, soia, tè, mandorle.
  • Alimenti ad alto contenuto di Ni (>= 1 microg/g): lattuga, fagioli, fagiolini, nocciole, noci, lenticchie, marmellata di frutta, arachidi, margarina, liquirizia, cacao in polvere.

Attenzione!

Il Nickel è presente anche negli additivi di prodotti industriali e negli eccipienti di alcuni farmaci/integratori.

Vi ricordo di leggere  gli ingredienti delle etichette dei prodotti.

E’ presente in:

  • addensanti
  • alghe varie
  • amido di mais
  • aromi artificiali
  • burro di cacao
  • carragenina
  • coloranti
  • conservanti
  • difosfati, difosfato sodico
  • echinacea
  • eucalipto
  • farina di carrube, farine di cereali non concessi, farina di guar, farine di legumi, farina di lupini
  • gelatina alimentare (grande quantità)
  • grassi idrogenati
  • grassi vegetali
  • karkadè
  • kokkoh
  • mais
  • maizena
  • maltitolo, malto, maltodestrine, malto d’orzo
  • menta
  • miso
  • mono e digliceridi degli acidi grassi
  • olio di anacardi, olio di arachidi, olio di avocado, olio di colza, olio di cocco, olio di girasole,
  • oli idrogenati
  • olio di macadamia, olio di mais, olio di mandorle, olio di noce, olio di palma, olio di soia, olio di semi di canapa, olio di semi di girasole, olio di semi di lino, olio di semi d’uva, olio di semi di sesamo, olio di vinaccioli
  • pappa reale
  • pectina artificiale
  • pirostati
  • proteine ​​vegetali
  • rosa canina
  • destrosio, zucchero d’uva, dolcificanti industriali, sciroppo di destrosio, sciroppo di fruttosio, sciroppo di glucosio, sciroppo di maltosio
  • semi, semi di guar, semi di tara
  • lecitina di  girasole, lecitina di soia, soia
  • tamari
  • tempeh
  • vanillina
  • E407 (carragenina), E410 (farina di semi di carrube), E411 (farina di semi di avena), E412 (farina di semi di guar), E417 (gomma di tara), E426 (emicellulosa di soia), E440 (pectina amidata), E441 (gelatina), E450 (difosfati e pirostati), E471 (mono e digliceridi degli acidi grassi), E479b (olio di soia ossidato).

Consigli:

  • Evitare di mangiare alimenti cotti e/o conservati nel metallo (ad eccezione di alluminio), l’assunzione di integratori multivitaminici.
  • Cuocere/conservare gli alimenti in contenitori di vetro, pirex, alluminio, carta da forno, ceramica non smaltata.
  • Utilizzare l’acqua imbottigliata, altrimenti far scorrere l’acqua del rubinetto qualche minuto prima dell’uso alimentare.